Quando
Marco Baliani si trova per
la prima volta a volare sul
deserto africano per atterrare
a Nairobi non si immagina
che la realtà di una
delle periferie del mondo
possa essere così dura
e degradata. Grazie a un progetto
Amref, un’associazione
laica che opera da anni in
Africa con progetti di sviluppo
sociale, Baliani incontra
una piccola comunità
dell’enorme baraccopoli
dove i ragazzini vivono per
strada sniffando colla dalla
più tenera età.
Da qui un’intuizione:
può la favola del burattino
più famoso del mondo
parlare a questi bambini già
induriti da miseria e violenze?
Può rappresentare per
loro una possibilità
reale di riscatto? Così,
senza ancora un progetto definitivo
si forma un gruppo di teatro,
finché Pinocchio prende
la parola. Il resto è
uno spettacolo travolgente
che ha riempito teatri.
Questo libro
è il diario di un viaggio
e di un’avventura straordinaria
che vuole restituire al lettore
le atmosfere, i sapori, le
sensazioni di questo incontro,
il senso di un viaggio che
ancora non è finito,
perché, come dicono
i griot africani, "c'è
un solo luogo dove andare
veramente, e quel luogo è
il Tempo".
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Nella storia di Pinocchio,
Geppetto, povero e affamato,
mette al mondo un figlio quasi
per gioco o per disperazione.
E’ un figlio imperfetto,
un pezzo di legno che si muove
incerto e che avrà
bisogno di molte esperienze
per diventare un bambino normale.
Pochi momenti dopo la nascita
padre e figlio si perdono
e si ritrovano solo alla fine,
tutt’e due molto trasformati
da tutte le vicende che gli
sono capitate. Fin dall’inizio
Pinocchio è solo, e
da solo dovrà affrontare
il grande mondo.
Sembra anche l’inizio
di quasi tutte le storie di
questi ragazzi di strada.
Anche qui i padri mettono
al mondo figli con incoscienza,
per distrazione, raramente
per un atto d’amore
consapevole, poi si perdono
e sono a loro volta perduti.
Nella quasi totalità
delle loro biografie, pazientemente
ricostruite nel percorso teatrale,
quando abbiamo cominciato
a rimettere insieme i frammenti
di una memoria personale,
a riallacciare rapporti con
ciò che restava dei
loro nuclei familiari, i padri
già non c’erano
più, scappati loro
per primi, con altre donne,
in altri quartieri, oppure
morti giovanissimi, di Aids
per lo più, o di altre
epidemie.
Qui, quando ci sono, i riferimenti
forti sono le madri, sono
loro che riescono a caricarsi
sulle spalle quattro, cinque
figli, aiutate dalla catena
femminile delle sorelle, delle
nonne, delle zie, magari sorrette
anche dalle vicine di casa.
Ma spesso anche le madri mancano
all’appello.
Dietro le storie dei ragazzi
di strada c’è
un groviglio di sensi di colpa
per la perdita del padre,
frustrazioni, richieste d’affetto
mai esaudite. Fin da piccoli
la casa-baracca è vissuta
come un luogo opprimente,
dove un altro uomo, magari
di passaggio, ha sostituito
il padre, dove compaiono strane
figure di zii, che li picchiano,
quando addirittura non li
violentano, oppure dove i
fratelli più piccoli,
cresciuti a grappolo uno via
l’altro, li costringono
a non avere più spazio,
né fisico, alla lettera,
né affettivo. Cominciano
presto ad allontanarsi, prendono
a girovagare finché,
prima ancora di rendersi conto
di ciò che gli è
accaduto, si sono trasformati
in ragazzi di strada, e allora
non tornano più indietro,
si costruiscono un’esistenza
precaria ma anche libera da
qualsiasi condizionamento
adulto, fanno banda, si proteggono
fra loro, sniffano, rubano,
si accoltellano, vengono imprigionati,
subiscono altre violenze,
in un ciclo infernale che
non ha vie d’uscita.
Quello che Pinocchio ritrova
nella pancia della balena
alla fine del suo viaggio
è un altro Geppetto,
un padre appunto “ritrovato”
ed Pinocchio adesso a prendersi
cura di lui caricandoselo
letteralmente sulle spalle.
Ancora una volta la metafora
del racconto corre parallela
fin quasi ad identificarsi
e sovrapporsi agli accadimenti
“reali” avvenuti
a fianco del percorso teatrale.
Alla fine siamo riusciti a
far tornare i ragazzi alle
loro famiglie o a quel che
ne rimaneva.
Guidati da loro, siamo andati
a trovare le baracche dove
avevano vissuto e da cui erano
scappati, non per farli tornare
fisicamente lì –
per molti di loro sarebbe
impossibile riadattarsi a
quelle condizioni –
ma per renderli responsabili
dei loro cari. La casa-teatro
resta fino ad ora il luogo
dove dormono e praticano teatro,
ma con sempre più frequenti
visite e scambi con le famiglie
di appartenenza.
John Muiruri ha poi pensato
a creare una specie di comitato
collettivo tra tutte le famiglie,
riunendole una volta alla
settimana alla casa-teatro
per parlare tutti insieme
dei problemi di ciascun nucleo,
di come si possono risolvere,
discutendo perfino di forme
di micro credito ricavate
dalle entrate teatrali, affidate
alle figure responsabili nei
vari nuclei familiari, per
lo più figure femminili,
ma sempre decidendo insieme
quanto e a chi dare.
Così il lavoro teatrale
ha formato un cerchio più
ampio di quello dei soli ragazzi.
Ho assistito ad uno di questi
meeting, i partecipanti arrivano
vestiti bene come andassero
a messa la domenica, si siedono
in cerchio e sotto l’attenta
regia di John cominciano a
discutere animatamente. Ci
sono lo zio di Wycliff, quello
di Alex, la nonna di Onesmus,
parenti ritrovati. Di colpo
anche loro sentono di avere
una relazione che li lega
e li rende degni di essere
ascoltati.
C’è molta allegria,
si fanno battute, i ragazzi
vanno e vengono, ognuno dice
la sua. Seduti in cerchio,
sembrano tutti improvvisamente
più svegli, hanno smesso
quel senso di apatia che spesso
li caratterizza, sentono che
qui si sta discutendo di cose
importanti, che li riguardano.
“Perché quando
i ragazzi, da cattivi diventano
buoni, hanno la virtù
di far prendere un aspetto
nuovo e sorridente anche all’interno
delle loro famiglie”
dice Collodi nel suo Pinocchio.
Sembra una frase intrisa di
moralismo, eppure qui è
proprio così, l”aspetto
nuovo” ce l’ho
sotto gli occhi, è
una trasformazione tangibile.
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